Introduzione *
“ Avrò perduto per sempre la possibilità di ritorno, ma avrò guadagnato la fama immortale”
Iliade,
IX, 413.
“I ritratti noti come repertorio del “Fayyum” mostrano un evidente sincretismo religioso tra la tradizione egizia della mummificazione e il mondo classico del ritratto come perenne trasmissione della memoria.
Altrettanto classica era stata la tecnica dell'encausto, modificata e lungamente consolidata in Egitto. In questa mostra è evidente anche un sincretismo artistico-culturale, in quanto la modalità pittorica proveniente dal Fayyum e il suo inquietante naturalismo sono utilizzati per ricreare il mito epico e farne risuonare l'eco in modo duraturo:ed è a questo aspetto che ci indirizzano i ritratti della mostra.
Nella letteratura elegiaca del primo Rinascimento dominava l'idea dell'esistenza di tre vite. La prima era la vita terrena, che termina con la morte. La seconda era la vita eterna dopo la morte. La terza, quella che il poeta spagnolo Manrique avrebbe definito "persistenza" riprendeva l'idea del kléos greco, la gloria degli eroi.
Il kléos era un tema ricorrente nei grandi poemi epici -come l'Iliade- e in esso convergono immortalità poetica e gloria epica. L'eroe greco poteva ottenerlo con il compimento di gesta gloriose o anche attraverso la propria morte, poiché l'immortalità richiedeva la morte fisica.
Allo stesso modo, la persistenza della fama sostenuta dal ricordo, era il fine ultimo della laudatio funebris nell'antica Roma. Questi ritratti sono il culmine plastico della vita di memoriae; della trasmissione del mito il cui significato fondamentale non ha una prospettiva spaziale ma puramente temporale. Il tempo del mito è circolare; è coscienza dell'atemporalità.
Un tempo che, qualunque sia la durata che gli viene attribuita, è sempre identico; un’ espressione di eternità”.
"...
sebbene la vita finisce, il suo ricordo ci consola".
Jorge
Manrique. Copla XXXV.
* a cura di Beatriz Tejero, storica dell’arte
Avrò perduto per sempre la possibilità di ritorno ma avrò guadagnato la fama inmortale.
Iliade, IX, 413.
Los retratos conocidos como de El Fayum mostraron un evidente sincretismo religioso entre la tradición egipcia de la momificación y el mundo clásico del retrato como perpetuación de la memoria. Igualmente clásica había sido la técnica del incausto que en Egipto se modificaría y consolidaría. En esta muestra hay también un evidente sincretismo artístico-cultural, ya que se recurre al modo pictórico del Fayum y su inquietante naturalismo para recrear el mito épico y hacer sonar su eco de forma perdurable. Y es precisamente esa forma la que transmiten los retratos de esta muestra.
En la literatura elegíaca del primer Renacimiento se difundió la idea de la existencia de tres vidas. La primera era la vida terrenal, que termina con la muerte. La segunda, la vida eterna después de la muerte. Y la tercera, aquella que el poeta español Manrique llamaría “perdurable” y que recogía la idea de la kleos griega, la gloria de los héroes. La kleos fue un tema recurrente en los grandes poemas épicos -como la Iliade- y en ella confluyen la inmortalidad poética y la gloria épica. El héroe griego la podía conseguir con la consecución de gestas gloriosas o incluso a través de su propia muerte, puesto que la inmortalidad requería de la muerte física. La vida de la fama conducida por el recuerdo es aquello que igualmente perseguirían las laudatio funebris en la antigua Roma.
Estos retratos son la culminación plástica de la vida de la memoriae, de la perpetuación de mito cuyo significado básico no tiene perspectiva espacial sino puramente temporal. El tiempo del mito es circular, es consciencia de intemporalidad. Un tiempo, el cual, sea cual fuere la duración que se le atribuya es siempre idéntico, una especie de eternidad.
“...y aunque la vida perdió, nos dejó harto consuelo su memoria”.
Jorge Manrique. Copla XXXV.
Beatriz Tejero